Nel giorno di Pasqua le letture, i gesti battesimali e la liturgia eucaristica ci riconducono alle origini, all’inizio della nostra fede.
Cosa c’è all’inizio? Il nostro nome, come per Abramo, per Mosè, per i
profeti e le donne al sepolcro. Una parola è entrata nel silenzio, ci ha
chiamato per nome e ha riempito la nostra vita come la luce del cero pasquale,
come il canto dell’alleluia. Per Dio non siamo anonimi, non siamo un numero ma
un nome, un dono e un progetto.
Questo nome che, simbolicamente, diamo al bambino nel battesimo ci
accompagna per tutta la vita. In questo nome scopriamo di essere un mistero, un
dono e un progetto; ossia, una vocazione.
Cosa vuol dire “vocazione”?
Innanzitutto, che la vita è un mistero e che non è posta completamente
nelle nostre mani. Quando chiediamo al bambino “cosa vorresti fare da
grande?” probabilmente sappiamo che la sua esistenza non corrisponderà
alla sua risposta, ma abbiamo in lui suscitato un desiderio, aperto un
orizzonte e allargato una prospettiva. È così anche per noi.
Sappiamo bene che ciò che ci aiuta a comprendere la nostra vocazione sono
le scelte, gli incontri, gli appuntamenti che la vita ci riserva. Come sarebbe
stata diversa la nostra esistenza se non avessimo incontrato alcune persone,
fatto determinate esperienze, vissuto alcuni ambienti!
In tutte queste tappe abbiamo iniziato a costruire noi stessi. La nostra
vocazione non si realizza a prescindere da questi incontri, non è un’idea alla
quale pieghiamo la realtà, né uno dei tanti appuntamenti che la vita ci
riserva. Essa è, piuttosto, un raggio di luce sull’esistenza: ad un certo punto
comprendiamo che tutto questo ha un senso, un significato, una prospettiva.
1. Un desiderio
La domanda “cosa farai da grande?” diventa una ricerca, un
desiderio, una corsa: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare,
invocàtelo, mentre è vicino” (Is 55,6). Entriamo, così, nella foresta delle
nostre domande, dei pensieri, delle esperienze alla ricerca di qualcosa che
duri, di un pensiero che dia pace, di un affetto che colmi i vuoti. A volte
troviamo qualcosa, altre volte ci perdiamo, altre ancora ci sentiamo dire come
le donne al sepolcro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc
24,5).
Il battesimo non è un rito ma un innesto. In Cristo, come i
tralci nella vite (Gv 15,1-11), innestiamo la nostra esistenza, le nostre domande e le
nostre ricerche. Perciò, la vita cristiana non smette di essere, come quella
degli altri, un'esistenza ricca di sogni, di dubbi, di paure e slanci, di
ricerche e attese. Con la vita cristiana scegliamo di innestare tutto questo
nell’albero della vita che è Cristo.
Per questo motivo vivere la vocazione cristiana non vuol dire
“sistemarsi”, cercare una sicurezza, adagiarsi. Al contrario, un cristiano
non si sposa, né diventa prete, né cerca un lavoro, né vive un servizio (cose
che possono volere tutti) per sistemarsi ma sentono, in qualsiasi vocazione
specifica, un invito ad orientare tutta la loro vita verso l’innesto da cui
tutto è nato: il vangelo.
Una vocazione può morire? Non so. Certamente può perdere vitalità se
continuiamo a cercare tra le cose che ci fanno morire, colui che è vivo.
Una vocazione può risorgere? Certo! Ogni volta che, come una cerva che
anela ai corsi d’acqua, scegliamo di ritornare alle sorgenti della vita..
Risorgiamo ogniqualvolta riascoltiamo la Parola di Dio come fosse la prima
volta e facciamo una esperienza di risurrezione: quella parola, entrata nel
cuore, non ritorna a Dio senza effetto, senza aver operato ciò egli desidera e
senza aver compiuto ciò per cui l'ha mandata (cf. Is 55).
2. Un cambio di prospettiva
In questa ricerca e nell’incontro con il Risorto comprendiamo, perciò, che
la vocazione non è soltanto una lettura del presente ma un salto, un cambio
di prospettiva: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre
vie non sono le mie vie” (Is 55,8-9). Come per Abramo, per Mosè, per Maria
e le donne al sepolcro l’incontro luminoso con il Signore ci colloca ad un
livello differente.
Dove avviene questo cambio? Ce lo ha ricordato il profeta Geremia: “toglierò
da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36,26). È nel
cuore che abbiamo un riflesso della luce pasquale che illumina il cammino del
credente. Tutto lì. Il cero che abbiamo accolto, la parola che abbiamo
ascoltato, l’acqua che ci aspergerà e il pane che mangeremo trovano nel nostro
cuore un riflesso. Nella nostra vita avviene questo quando, crescendo, ci
rendiamo conto che non ci basta credere perché qualcun altro ci ha parlato di
Cristo ma perché Cristo stesso, un po’ alla volta, sta parlando a noi. E così
possiamo dire: “Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi
stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo” (Gv
4,42).
3. Un incontro trasformante
Nel cuore troviamo un’altra dimensione della vocazione cristiana: la trasformazione. Ogni vocazione è un incontro trasformate in Cristo. Quando comprendiamo di essere chiamati alla fede ci accorgiamo che, un po’ alla volta, inizia in noi un mutamento interiore, una conversione. La vocazione cristiana non è l’esecuzione di uno spartito già scritto. È, piuttosto, la musica che si realizza nell’incontro tra colui che l’ha scritta e la chi la esegue. È l’incontro tra la genialità di chi l’ha scritta e l’obbedienza creativa di chi la esegue. Pensiamo ai santi: della loro vita noi assaporiamo la dolcezza della grazia di Dio e la novità della vita senza preoccuparci troppo di distinguere una cosa dall’altra.C’è qualcosa che si oppone alla vocazione? Certo. La durezza. La sicurezza
di un ruolo, la sfiducia nella parola, la chiusura dinanzi alla novità.
C’è qualcosa che fa maturare una vocazione? Certo. La tenerezza del cuore.
La disponibilità a ricominciare, la volontà di ripensarsi, la bellezza nel
cercare tra le pieghe della vita il senso dei giorni.
4. Una esperienza pasquale
Nella vocazione facciamo una esperienza di Pasqua perché nel nostro cuore
avviene ciò che ci ha detto S. Paolo: “se siamo morti con Cristo, crediamo
che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore
più” (Rm 6,8-9). Fare pasqua vuol dire morire per rinascere.
La ricerca e la trasformazione del cuore sono possibili se passano
attraverso il mistero della morte e risurrezione. Nel battesimo siamo stati
innestati in Cristo, abbiamo scelto di morire all’uomo vecchio. È qui la novità
della vita cristiana, il passaggio fondamentale che rende la nostra vita
differente non per ciò che facciamo o diciamo, per ciò che produciamo o
realizziamo.
Nel morire a noi stessi ci diciamo, ogni volta, per chi vogliamo vivere.
Maria di Magdala incontra il Signore e comprende che la sua vita può avere un
altro orizzonte e per farlo, lascia gli aromi che aveva portato per la
sepoltura, così come Pietro e i suoi amici avevano lasciato i loro progetti per
seguire il Maestro, così come Zaccheo aveva scelto di liberarsi dalle sue
sicurezze.
C’è qualcosa che spegne l’entusiasmo della nostra vocazione? Si. Il pensare
di poter essere felici con le sole nostre forze, la paura che ci fa riprendere
ciò che abbiamo donato a Dio, il timore di donare, pensando di poter essere
felici conservando per noi stessi.
C’è qualcosa che rende nuova la nostra vocazione? Certamente. La pasqua del
Signore. Il passaggio di Dio nella nostra esistenza. La capacità di morire a
noi stessi per vivere ciò che Gesù ci ha detto: “Lascia tutto e seguimi”:
“Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria
vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25). Questa consapevolezza ci ricorda
che siamo chiamati a vivere un'esistenza che non finisce con la morte. Siamo
chiamati ad essere di Cristo per l’eternità. Per noi vivere non vuol dire
cercare la propria realizzazione, un ruolo o un potere. I frutti della nostra
vita sono i frutti dello spirito: “amore, gioia, pace, magnanimità,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Queste
sono le opere che nascono dall’innesto con Cristo. Ogni vocazione se porta con
sé il profumo di questi frutti ci parla della vita eterna nata dalla pasqua.
5. Un innesto nella vita della Chiesa
La Pasqua non è un rito individuale, così come non lo sono le nostre vite, così come non lo sono le nostre vocazioni. L’innesto nella vita di Cristo è, sempre, un innesto nella vita della Chiesa. Vivere la vita come vocazione vuol dire partecipare al sacerdozio di Cristo, ossia, vivere il battesimo come partecipazione alla vita del popolo di Dio e come dono per il popolo di Dio. Ogni vocazione particolare è sempre manifestazione della originaria vocazione battesimale. Tutti noi siamo innanzitutto cristiani. Abbiamo tutti la stessa dignità.
Gesù non ha amato meno Maria di Magdala di Pietro, né Zaccheo di Marta o
Maria. Ma nella nostra vocazione non solo siamo uguali nell’essere amati da
Cristo, siamo uguali perché, seppur nelle specifiche chiamate e storie
personali, amiamo ciò che ama Cristo. Cristo ama la sua chiesa, Cristo
ama chi si è allontanato da lui e lo cerca, Cristo ama i poveri e i sofferenti,
Cristo ama Pietro che lo ha rinnegato, Tommaso che ha avuto dubbi, il discepolo
che lo ha amato, i discepoli di Emmaus che erano sfiduciati.
I cristiani vivono la loro vocazione amando chi ha amato Cristo e come li
ha amati lui. I cristiani vivono la vita come un dono sempre. Non solo perché
l’hanno ricevuta da Dio ma perché trovano la loro felicità nel donarla.
L’eucaristia è la nostra pasqua. In essa noi troviamo il racconto della nostra
vita e della nostra vocazione. Cos’è l’eucaristia se non ricerca, ascolto,
trasformazione, morte, risurrezione, dono della vita?
Questa è la nostra pasqua e se oggi il nostro cuore è in festa è perché nei
segni sacramentali che oggi celebriamo ci viene raccontata la bellezza della
nostra vita.
Questa sera ci saranno rivolte, come nel giorno del nostro battesimo, le
domande della fede: a cosa vuoi morire? In chi credi? Nella risposta a queste
domande troviamo la bellezza e la novità della vita cristiana.
In questi giorni di Pasqua nei vangeli ritornerà sulle labbra del Signore
Risorto un invito rivolto alla chiesa nascente: “non abbiate paura”.
È l’invito che portiamo con noi questa sera. Siamo stati chiamati tutti a
compiere le grandi opere di Dio, abbiamo ricevuto lo spirito che non ci rende
schiavi della paura, abbiamo ricevuto una vocazione che ci aiuta a vivere
l’esistenza come una ricerca, un cambio di prospettiva, una trasformazione, una
pasqua di morte e risurrezione, un dono per il popolo di Dio. La paura è il
diserbante di ogni vocazione cristiana. L’amore è il concime che rende permette
ad ogni vocazione di portare i suoi frutti.
Sentiamo per noi questa sera le parole rivolte da Paolo al suo giovane
collaboratore e figlio nella fede: "Ti ricordo di ravvivare il dono di
Dio, che è in te mediante l'imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha
dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non
vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro” (2 Tim 1,6-8).
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