Traccia per i cammino quaresimale 2022
L’imposizione delle ceneri viene accompagnata da due inviti: “Convertitevi,
e credete al Vangelo” - “Ricòrdati che sei polvere, e in polvere
tornerai”.
Nel libro della Genesi leggiamo: “Con il sudore del tuo volto mangerai
il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e in polvere ritornerai” (Gen 3,19). Queste parole ricordano
le origini e il fine della vita dell’uomo, creato da Dio dalla polvere già
prima del peccato originale. Ci dicono che siamo polvere per “natura”, ossia,
che siamo stati creati da Dio come esseri fragili: “Signore, che cos'è
l'uomo perché tu l'abbia a cuore? Il figlio dell'uomo, perché te ne dia
pensiero? L'uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa” (sal
144,3-4; sal 39,6-7). L’uomo può guardare alla sua fragilità con gli occhi
della grazia o con quelli del peccato. Creato dalla polvere, appesantito dal
peccato, può vivere la sua fragilità come una condanna o una minaccia, con
paura e vergogna o come un macigno da cui svincolarsi. Oppure, a partire dalla
sua fragilità, potrebbe leggere la vita con sapienza (cf. Gc 3,17), con una
leggerezza capace contare i giorni (cf. sal 90,12) senza appesantirli.
Le ceneri ci ricordano la leggerezza della nostra esistenza: siamo come un soffio.
Mi piacerebbe, perciò, in questa quaresima consegnarvi
uno sguardo “leggero” sull’esistenza, così come leggere sono le ceneri che ci
saranno poste sul capo.
Una riflessione sulla leggerezza non sembri fuori
luogo all’inizio di questo tempo in cui siamo chiamati a seguire Gesù con un
nuovo impegno, confortati dalle sue parole: “Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,30).
Il giogo è lo strumento che, imposto al bue per arare, serve per orientare
il suo lavoro e a tracciare il suo percorso. All’inizio del cammino quaresimale
potremmo pensare che propositi, impegni, regole, sacrifici e digiuni siano
sufficienti ad orientare la nostra vita. Come “buoni ebrei” potremmo caricarci
il peso della legge pensando che sia sufficiente seguire la norma per sapere
dove stiamo andando.
Gesù, alleggerendo il cammino del discepolo dalla tentazione
dell’autosufficienza e dell’ipocrisia, ci ricorda che non è Dio che appesantisce
la nostra vita ma è il peccato renderla pesante, noiosa e faticosa. Egli,
piuttosto, “dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche
i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti
sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza
affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40,29-31).
Probabilmente gli affanni e le sofferenze di questo tempo hanno appesantito il nostro passo o rallentato il nostro cammino facendoci credere che siamo soli lungo la strada. Ma noi crediamo che, anche nella delusione o scoraggiamento, Gesù, come con i discepoli di Emmaus, cammina con noi e ci riscalda il cuore. Quanto sarebbe bello se, al termine della quaresima, la nostra Comunità ritrovasse l’entusiasmo del discepolo che, lasciato tutto, si cinge la cintura ai fianchi e, con passo leggero, annuncia il Vangelo!
Ma cosa vuol dire vivere la vita cristiana con leggerezza?
Potremmo rileggere l’elemosina, la preghiera e il digiuno chiedendoci
in che maniera Gesù li ha alleggeriti con la sua parola.
Cosa appesantisce l’elemosina? Il bisogno di essere riconosciuti nel
bene che facciamo. Questa tentazione si esprime in forme diverse.
Vorrei sottolinearne soltanto una: il vizio della lamentela.
Il lamento appesantisce i nostri discorsi, fa emergere il male senza trovare soluzioni, mette sulle spalle degli altri tutte le responsabilità, ci pone nel perimetro dei buoni, escludendo gli altri. Questo vizio della parola è caratterizzato dalla ripetitività: il suo peso aumenta e si sedimenta nei nostri pensieri, nei nostri discorsi e tra le nostre parole. La lamentela rende “più pensate” il bene che facciamo o diciamo, annebbiandone la bellezza e la libertà. La lamentela atrofizza la vita di una comunità, l’appesantisce con il giudizio, rendendoci incapaci di vedere ciò che è essenziale.
“Tanto”,
“ormai”, “lo sappiamo”… accompagnano, come un’antifona, i salmi
delle nostre insoddisfazioni sul mondo, sulla chiesa, sugli altri, ponendoci,
come il fariseo, nelle prime file dei benpensanti che si presentano dinanzi a
Dio con le mani pulite presumendo che, se fossimo al posto degli altri, avremmo
certamente fatto di meglio.
Vi propongo come antidoto le parole di Paolo: “Portate i pesi gli uni
degli altri” (Gal 6,2). Chi si carica dei pesi altrui con amore non si
lamenta, si sente responsabile del mondo, vive nella carità la sua vocazione
nella storia e nella chiesa.
Cosa appesantisce la preghiera? La superficialità nella vita spirituale.
Questo atteggiamento potrebbe declinarsi in tante maniere: nella preoccupazione di apparire, nel distacco tra la vita interiore e scelte quotidiane, nell’ansia di seguire le norme piuttosto che ascoltare la Parola.
Quando spostiamo il centro della preghiera dal cuore all’esterno, tutto diventa più pesante: il rito, il canto, la parola. Calvino, in una delle sue lezioni su questo tema, scriveva: “leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore”.
Rischiamo di appesantire con il giogo della norma una delle esperienze più
sublimi del cuore dell’uomo: la preghiera.
Chi svolge il servizio nel coro liturgico, anima o presiede una
celebrazione ha una grande responsabilità: ha il compito di “animare”,
cioè di essere l’anima nel corpo della chiesa. Come l’anima è trasparente ma dà
la vita, come contagia con la sua vitalità senza sostituirsi al corpo, come
spinge il corpo a muoversi, a parlare, a cantare, così chi anima la liturgia è
chiamato ad essere trasparente, contagioso, coinvolgente.
Nella preghiera si uniscono la responsabilità di chi anima e la disponibilità di chi si lascia animare. Non lasciamo che le mascherine, che ancora coprono le nostre labbra, chiudano anche il nostro cuore o appesantiscano il ritmo della preghiera delegando ad altri il compito di parlare, cantare ed agire. Durante il lockdown abbiamo compreso che vi è una differenza essenziale tra una messa in tv e una liturgia in una chiesa.
In tv o su internet il presbitero è l’unico attore, i cori cantano, i lettori leggono e noi siamo lì che guardiamo, ascoltiamo ma ci sentiamo estranei. Se ci annoiamo, possiamo anche cambiare canale tv o scegliere la messa che più ci piace. Siamo tornati in chiesa e, dopo un breve iniziale entusiasmo, siamo ritornati a vivere le nostre liturgie accontentandoci del solito “noi canteremo gloria a te” o preoccupandoci che i colori, i fiori, le candele siano secondo quanto scritto nelle rubriche.
Tutto questo
è sufficiente per dire che stiamo incontrando Dio?
La preoccupazione di riprendere incontri e catechesi per i ragazzi non ha interrogato minimamente gli adulti sulla presenza ed efficacia della messa domenicale. Se le liturgie sono per i bambini e ragazzi (e non solo) noiose, monotone, ripetitive non dovremmo chiederci cosa succede alla nostra preghiera?
È evidente che questa domanda ce la poniamo se noi per primi siamo presenti
alla messa; se non ci accontentiamo di partecipare a messa solo quando dobbiamo
farlo; se ci lasciamo interrogare sul nostro modo di pregare; se la liturgia
per noi non è semplicemente un dovere o una organizzazione; se siamo disposti a
condividere la fatica dell’impegno, il ritmo dell’esercizio, la stanchezza
della ripetitività.
La liturgia è come un esercizio fisico: non produce i suoi frutti se non con la continuità e la costanza. L’energia che ci viene da una celebrazione non possiamo coglierla se non nell’impasto tra la nostra umanità e la grazia che ci viene da Dio. Quando la stanza del nostro cuore è pronta, allora Gesù “bussa alla porta, entra nel cuore e parla con noi e noi con Lui” (cf Ap. 3,20).
In che
maniera Gesù alleggerisce la preghiera?
Spostando il luogo della preghiera dall’esterno all’interno: “quando tu
preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel
segreto” (Mt 6,6).
Come si fa a pregare incessantemente senza appesantire la preghiera con
orpelli, parole o riti? è possibile
una preghiera “leggera”, che vada dritto al cuore?.
In un testo del XIX secolo, “I Racconti di un pellegrino russo”, si
racconta di un giovane si poneva le stesse domande. Dopo tante ricerche si
imbatte in uno starec che gli consegna una raccolta di scritti di spiritualità ortodossa
(Filocalia) e, tra questi, un brano di san Simeone il Nuovo Teologo: “Siedi in silenzio e appartato;
china il capo, chiudi gli occhi; respira più lentamente, guarda con
l’immaginazione dentro il cuore, porta la mente, cioè il pensiero, dalla testa
al cuore. Mentre respiri, di’: «Signore
Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore», sottovoce
con le labbra, oppure solo con la mente. Cerca di scacciare i pensieri, sii
tranquillo e paziente, e ripeti spesso questo esercizio”.
È questa la “preghiera del cuore”: in questo tempo di quaresima
proporremo alcune catechesi su questa preghiera. Mi auguro che possa aiutarci a
rendere più leggera la nostra vita spirituale e le nostre liturgie.
3. DIGIUNO
Gesù non nega il digiuno ma invita ad alleggerirlo con il profumo che
contrappone alla tristezza.
La quaresima è un tempo di verifica e cambiamento. Tutto questo è faticoso
e chiede una profonda verità su noi stessi. Questo è il tempo in cui siamo chiamati
a lasciare ciò che appesantisce la
nostra vita.
C’è un episodio nel vangelo in cui si racconta degli uomini che accerchiano
una pubblica peccatrice per lapidarla. Di questo episodio mi colpisce
sempre la reazione degli uomini che tornano a casa lasciando scivolare le
pietre che avevano portato con sé. Anche questi hanno avuto un dono da Gesù.
Sono stati liberati dalla pietra che aveva chiuso il loro cuore. Mi piace
pensare così al digiuno. Come un’esperienza di liberazione, di leggerezza. In
fondo, quando digiuniamo ci sentiamo più leggeri!
Questa sera, assieme alle ceneri, riceveremo una piccola pietra, portiamola con noi.
In questi giorni cerchiamo uno spazio di solitudine e chiediamoci: “cosa
appesantisce la mia vita? Quali sentimenti rendono il mio cuore duro? Quale
pietra dovrò gettare via?”.
Lo faremo pregando con la preghiera del cuore, ripetendo dentro di noi,
secondo il ritmo del nostro respiro, «Signore Gesù Cristo Figlio di Dio,
abbi pietà di me peccatore».
Non abbiate fretta né nella preghiera, né nel cercare una risposta. Forse
il Signore ci dirà qualcosa alla fine della quaresima, forse a metà o nel tempo
di Pasqua. Abbiamo quaranta giorni. Apriamo semplicemente la porta e Lui
farà il resto.
Vorrei concludere lasciandovi alcune frasi con le quali vorrei declinare la leggerezza. Potrebbero essere una piccola guida per l’esame di coscienza quaresimale.
- Dare il giusto peso
alle cose
- Portare i pesi gli uni
degli altri
- Togliere le travi che
appesantiscono i nostri sguardi
- Servire piuttosto che
comandare
- Ricordare il passato
senza rimuginare tempi che non esistono più
- Perdonare e liberarsi
dai sensi di colpa
- Vivere legami senza
legare
- Non pretendere dagli
altri ciò che noi non facciamo
- Fare agli altri ciò che
vorremmo che gli altri facciano a noi
- Non affannarsi o
preoccuparsi per ciò che non conta
- Chiedere il pane
quotidiano
- Non sprecare parole
- Donare senza farsi
troppi calcoli
- Correre, lavorare,
impegnarsi non per dovere ma per passione
- Non accumulare pensando
che vita duri per sempre
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