Passa ai contenuti principali

Inizia la fase 2... noi a che punto siamo?

In questi giorni sono emerse posizioni diverse su come iniziare o vivere questa fase. Forse dovremmo chiederci: cosa abbiamo imparato dalla fase 1?

 Mentre si susseguivano indicazioni, comunicati stampa, consigli ho pensato di ritagliarmi un po’ di tempo per chiedermi cosa avessi imparato in questi due mesi. 

Per farlo ho ripreso il capitolo IV della Gaudium et spes dove la mutua relazione tra la chiesa e il mondo è declinato da due principi:
  1. L’aiuto che la chiesa intende dare al singolo e alla società umana
  2. L’aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo.

A partire da queste due prospettive vorrei rileggere il cammino fatto in questo tempo.

1. L’aiuto che la chiesa intende dare alla società umana

  • Promuovere l’unità
Il Concilio riconosce nel “movimento verso l’unità” uno dei contributi che la chiesa potrebbe dare al mondo contemporaneo: “promuovere l'unità corrisponde infatti alla intima missione della Chiesa, la quale è appunto «in Cristo quasi un sacramento, ossia segno e strumento di intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»”. Tra mille opinioni, soluzioni, ipotesi siamo stati chiamati a porre in essere percorsi verso l’unità.
  • Compiere fedelmente i propri doveri terreni. 
Tra i più gravi errori del nostro tempo, il Concilio indica per i cristiani “il distacco tra la fede che professano e la loro vita quotidiana”. Perciò mette in guardia la chiesa da non contrapporre i doveri terreni alla vita religiosa, riducendo i primi a semplici attività e la seconda “esclusivamente ad atti di culto e in alcuni doveri morali”. Siamo chiamati a trovare una sintesi, un’armonia tra la città celeste e quella terrena dove l’essere “pellegrino” non si contrappone all’essere “straniero” (1Pt 2,11). A chi, affaticato o scoraggiato, non vede che il presente proponiamo una vita religiosa non ridotta uno spazio-sacro in cui restare protetti o, magari, non contagiati dagli affanni e dalle preoccupazioni del tempo ma, nella fedeltà ai doveri quotidiani, siamo chiamati a far sentire il “profumo di Cristo” (2Cor 2,15).
  • A chi spetta il discernimento? 
Il Concilio non ha dubbi: ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali […] Spetta alla loro coscienza già convenientemente formata di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena” .
E i sacerdoti? Il Concilio sottolinea due atteggiamenti:
- “Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione”.
- Riconoscano che “se le soluzioni proposte da un lato o dall'altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della Chiesa”.
I Vescovi “a cui è affidato l’incarico di reggere la chiesa di Dio” è chiesto di dimostrare, con la vita e la parola, assieme al popolo di Dio, “che la chiesa, già con la sola sua presenza, con tutti i doni che contiene, è sorgente inesausta di quelle forze di cui ha assoluto bisogno il mondo intero” (43).

Cosa abbiamo imparato dalla fase 1?

    • Siamo stati segno di unità?

    Guardando la fase 1, mi chiedo se siamo stati il segno visibile dell’unità, se l’abbiamo cercata e promossa a partire dall'interno, ognuno con la propria vocazione e le proprie responsabilità. Se non siamo stati tentati anche noi, da forme di narcisismo mediatico, dal bisogno di emergere sull'emergenza, dal desiderio di essere ovunque a tutti i costi. La verifica sulla fase 1 dovrebbe aiutarci a favorire e promuovere, nella fase 2, percorsi di unità nella chiesa e fuori dalla chiesa.  In questo tempo in cui ci viene chiesto di prendere le distanze è necessario cercare spazi nuovi per non rinunciare alla comunione di cui l'Eucaristia è sacramento.
    • Siamo stati una chiesa popolo di Dio?
    Il Concilio affida ai laici il compito di aiutarci a trovare questa, non sempre facile, armonia tra le due città in cui abitiamo. A volte si ha l’impressione che concediamo, come favore, uno spazio che appartiene ad altri per condizione. È ovvio che se tutti i posti sono occupati, chi timidamente si affaccia per cercare il proprio, torna indietro! Come presbitero mi piacerebbe verificarmi su quanti consigli ho cercato e ricevuto dai laici anche attraverso consigli pastorali o incontri on line. Quale volto di Comunità è emerso in questo tempo?
    Forse, nella fase 1 mi sarebbe piaciuto un più deciso intervento dei laici sull'aumento dei prezzi nei supermercati, una maggiore compattezza nel presentare le proprie perplessità sull'apertura delle sale gioco (magari proponendo forme alternative di socializzazione), un maggiore senso associativo nelle forme di aggregazione laicale, un maggiore bisogno di coinvolgimento e democraticità in un tempo in cui l’emergenza ha fatto emergere solo individualità. Potrebbe essere questo un obiettivo per la fase 2?
    • Siamo stati una chiesa povera per i poveri?
    Abbiamo vissuto questa emergenza in un tempo il cui il potere si misura non solo con le tessere elettorali, referendum, marce o scioperi. Oggi il potere si misura con la comunicazione. Ancora una volta, la tentazione di clericalizzare spazi e tempi di potere ci ha coinvolti.  Mi piace pensare alla fase 1 come una grande occasione per dare visibilità ai tanti laici che, nella vita quotidiana, hanno coniugato il vangelo con la vita domestica, con il lavoro a scuola, negli ospedali, negli uffici pubblici, nelle farmacie e negozi. Ai laici cristiani che si sono offerti per collaborare nella Caritas, nella protezione civile o associazioni di volontariato. Ai laici cristiani che non si sono “accontentati” di non poter andare a messa ma si sono presi cura della vita spirituale usando tutti i mezzi possibili che lo stato di emergenza in cui viviamo ci ha offerto. Alcuni pensano alla fase 2 come un ritorno alla “normalità” ma per noi tutto questo non è “normale”? sarebbe bello raccontarci quanta normalità sia rientrata nella fase 1 e quanto di questa fase dovrebbe entrare nella normalità della vita ecclesiale prossima e futura. 
    • Siamo stati una chiesa del primo annuncio?
    Abbiamo sperimentato il dolore, la paura, l’angoscia per il tempo presente e per il futuro dell’umanità. A questa umanità abbiamo avuto il privilegio di portare il primo annuncio della nostra fede, abbiamo avuto l’occasione per ricordare che “soltanto Dio dà risposta ai più profondi desideri del cuore umano, che mai può essere pienamente saziato dagli elementi terreni” (41). In che maniera l’abbiamo fatto? E, se non lo abbiamo fatto, piuttosto che preoccuparci di come riprendere un catechismo interrotto, non dovremmo fermarci per chiederci come riprendere il primo annuncio?

    2. L’aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo.

    “Oggi soprattutto, che i cambiamenti sono così rapidi e tanto vari i modi di pensare, la Chiesa ha bisogno particolare dell'apporto di coloro che, vivendo nel mondo, ne conoscono le diverse istituzioni e discipline e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di non credenti” (44). Queste parole aprono le porte a due atteggiamenti: il discernimento – la lettura dei segni dei tempi.

    Cosa abbiamo imparato dalla fase 1?

    • Una pastorale comunicativa
    Questa fase ci ha consegnato strumenti nuovi con i quali vivere questo tempo. Non dobbiamo negare che forse eravamo abituati a viaggiare con strumenti vecchi e, a volte, obsoleti; con mezzi che ci hanno fatto stancare, affannare e rincorrere – con poco successo – i ritmi della vita quotidiana. 
    Ci siamo dovuti fermare e ci siamo accorti che possiamo vivere questo tempo senza necessariamente affannarci. Abbiamo imparato ad usare alcuni strumenti. È vero la nostra inesperienza ci ha resi, a volte, ridicoli, altre impacciati. Ma ci stiamo provando. Forse potremmo continuare ad usare, non solo nella fase2, alcune piattaforme non tanto per inventarci cose strabilianti ma per coinvolgere nella vita della chiesa genitori, giovani o laici che, altrimenti, non parteciperebbero nei nostri organismi di partecipazione. Il “mondo” ci sta insegnando linguaggi diversi per coinvolgere maggiormente le nostre comunità, per favorire percorsi di comunione e dialogo.
    • Il primo annuncio della carità
    In questi tempo, inoltre, abbiamo pregustato ciò che ci ha profetizzato san Paolo nella lettera ai Corinzi. Tante volte abbiamo ascoltato nelle nostre comunità: “Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!” (1 Cor 13,12-13). C’è stato un momento in cui le nostre celebrazioni sono sparite, le nostre catechesi annullate: è rimasta solo la carità. Non mi piace vedere tutto questo come una sconfitta o come l’unico riconoscimento che uno stato laico potrebbe avere nei nostri confronti. Mi piace leggere tutto questo come un segno dei tempi, una anticipazione della Città santa dove non ci sarà alcun tempio e dove, venuta a mancare la fede e la speranza, ci sarà solo la carità.
    • Ritornare all'Eucaristia imparando dall'Amazzonia
    Il 2 febbraio 2020 Papa Francesco ci consegnava l’esortazione apostolica sul Sinodo per l’Amazzonia, una terra in cui “molte delle comunità ecclesiali hanno enormi difficoltà di accesso all'Eucaristia. A volte trascorrono non solo mesi, ma addirittura diversi anni prima che un sacerdote possa tornare in una comunità per celebrare l'Eucaristia, offrire il sacramento della Riconciliazione o celebrare l’Unzione degli Infermi per i malati della comunità” (Documento finale). Un mese dopo le nostre chiese occidentali hanno sperimentato un digiuno che per altre comunità è “normale”. Sulle nazioni più ricche del mondo si è affacciata la paura della fame, una paura che hanno sperimentato nell'Eucaristia le nazioni più ricche di messe e sacramenti. Ho vissuto la prima fase come un tempo di condivisione con le comunità cristiani più deboli, mi sono interrogato sulla loro fede, sulla perseveranza che le sostiene. Nella fase 2 vorrei rileggere l’esortazione di Papa Francesco come rivolta alle nostre Comunità che ora hanno sperimentato un digiuno eucaristico più lungo, per ripartire di là. Sento di dover chiedere perdono a queste comunità sorelle per non aver compreso fino in fondo la loro fatica, il loro dolore, il loro grido. Ma tutto questo mi rende più vicino e fratello nel vivere la condizione di homo viator in questo tempo cui “cerchiamo la città futura” (Eb 13,14).

    Commenti

    Post popolari in questo blog

    Si domandavano che senso avesse tutto questo

    Le donne, nel vedere la pietra rimossa dal sepolcro e non trovando il corpo di Gesù, si chiedono che senso avesse tutto questo.  La pasqua porta con se una domanda di senso. Le domande di senso fanno parte della nostra vita. Quelle più profonde nascono da un evento, da una situazione nuova. A volte, emergono dall’incon tro con avvenimenti complessi: una malattia, la morte di una persona, il dolore, le ingiustizie. Altre volte, da eventi nuovi: la nascita, una scelta di vita, una relazione profonda.  Per le donne che seguivano Gesù sarà successa la stessa cosa. Finito il riposo sabatico, andavano al sepolcro per ungere di olii il maestro. Cercavano di alleviare un dolore immenso, dinanzi al quale i più forti, gli apostoli, erano  scappati.  L’olio profumato serviva per togliere l’olezzo della morte, per accarezzare, per l’ultima volta, un corpo che non avrebbero visto più. Certamente non serviva al cadavere, ma, probabilmente, era utile per loro;, avrebbe potuto risol...

    Lasciatevi trasformare

    Nel prefazio dei defunti il sacerdote prega: “ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata”. Questa invocazione ricorda l’atto di fede del credente dinanzi al mistero della morte e, contemporaneamente, unisce la vita del discepolo di Gesù al suo Maestro riconoscendo l’azione di Dio in tutta l’esistenza del credente. Il Signore non ci toglie la vita ma la trasforma.  In quest’azione di Dio, ossia dare una forma nuova, mi sembra di poter cogliere il senso profondo della Pasqua del Signore.  Cosa stiamo celebrando?  Certamente non un anniversario o un ricordo antico, ma un evento che ha cambiato la storia del mondo e la vita dei discepoli. Un incontro, una relazione che hanno il potere di trasformare. Quando amiamo una persona, lo stare con lei, necessariamente ci trasforma, ci cambia. Attraverso lei impariamo a conoscere tratti della nostra personalità o dimensioni della vita che prima ci erano nascosti o non completamente chiari.  Un'amicizia, un gra...

    L'asciugamano: un pro-memoria per non lasciare i piedi bagnati

    In questo anno pastorale abbiamo messo al centro della nostra riflessione il tema della “Comunità educante”. La parrocchia è il luogo in cui sperimentiamo percorsi educativi in cui tutta la comunità è educata dal Maestro alla vita piena del Vangelo.  Nei vangeli l’appellativo “maestro” (“rabbì”) è attribuito a Gesù in diverse occasioni ma solo nell’ultima cena Gesù stesso si auto-definisce maestro, unendo questo appellativo a quello di Signore. Quest’autodefinizione di Gesù rende il racconto dell’ultima cena unico non solo per i gesti compiuti ma anche per il significato che a questi viene attribuito dallo stesso Signore. Perciò, prima di dirci cosa dobbiamo fare, egli ci racconta qualcosa di se stesso. In quei gesti ci rivela un tratto fondamentale della sua vita.  Tutto questo non avviene con un discorso ma con la loquacità delle azioni che l’evangelista Giovanni ci descrive con una minuziosità e una ritualità che conservano  il loro fascino. Come Gesù ammaestra la sua ...