Omelia di Natale
Pieter Brueghel il Vecchio, Censimento di Betlemme 1566 |
Luca, nel suo vangelo, racconta
la vita di Gesù mettendo in ordine tutti gli avvenimenti in modo da darci ragione della «solidità degli insegnamenti ricevuti» (cf. Lc 1).
Perciò leggiamo i vangeli
dell’infanzia di Gesù non tanto come una storiella, quasi una favola, sulla
vita del Signore ma come un messaggio che diventa per noi “paradigma” per
l’accoglienza e l’annuncio del Vangelo.
Se Luca ha detto alcune cose e ne
ha omesse altre è perché, nella struttura e nelle parole scelte, ha voluto dire
qualcosa di importante e significativo per la nostra fede.
1.
Il censimento
di Cesare Augusto
«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria.
Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città» (Lc 2,1-3).
L’evangelista incastona la
nascita di Gesù in un avvenimento: il primo censimento voluto dall'imperatore Casere
Augusto.
Anche il re Davide, vissuto 1000
anni prima di Cristo, volle fare un censimento. Questa scelta fu letta come il
secondo grande peccato del re (cf. 2Sam 24 – 1Cron 21). Davide, infatti, con il
censimento volle mettere sulla bilancia il suo potere, pesare il suo popolo ma,
ancor di più, volle misurare la sua forza: in Israele «c’erano ottocentomila uomini abili in grado di
maneggiare la spada; in Giuda cinquecentomila» (2Sam 24,9). Davide conta le
pecore sostituendosi al vero Pastore che «chiama le
sue pecore, ciascuna per nome» (Gv 10,3), il
re «non ha più bisogno di appoggiarsi a Dio perché ormai è il re più
potente della terra e può fare da solo!» (C.M. Martini).
Ora il Re Davide non ha più bisogno di Dio: può
contare sulle sue forze, su quanto gli appartiene. Così il suo servizio al
popolo diventa un potere da esercitare sul popolo.
Il bisogno di fare un censimento
resta, anche oggi, una delle tentazioni e dei peccati di chi esercita un
potere, uno dei modi con i quali contare il proprio successo o guadagno.
Ancora oggi, chi esercita il
potere lo fa misurando. Siamo contati dagli indici di gradimento, dalle
indagini statistiche o di mercato, dai consensi sulle pagine instagram o
facebook. Chi esercita il potere ha bisogno di contare, facendoci credere che
esistiamo solo nella misura in cui ci lasciamo contare.
C’è un potere dei mezzi di
comunicazione, degli Stati o delle grandi potenze economiche che ci induce a
massificarci in sistemi di pensiero o mode che illudono con miraggi di libertà.
Il bisogno di misurare è anche in
noi quando ci lasciamo trasportare da giudizi superficiali o ci accontentiamo
di generalizzazioni che massificano la persona. O, peggio, quando misuriamo la
storia lasciandoci ingannare dalla cronaca o scoop che non hanno altro fine che
generare opinione. Non è un caso se nella programmazione televisiva viene dato
sempre più spazio a programmi in cui il pettegolezzo, la volgarità, l’episodio
ci distrae dalla lettura della storia. Piccoli fatti di cronaca non ci
permettono di approfondire un argomento, di creare un pensiero, di studiare un
avvenimento. Così le nostre menti si abituano ad una vita in superficie dove il
fatto cede il passo all'approfondimento, il detto allo studio, l’opinione alla
competenza. Questo qualunquismo, questo pressapochismo ci induce a vivere non
nella storia ma sulla storia, facendoci perdere il sapore profondo della vita.
Quanti cristiani, anche tra noi,
si accontentano di questi surrogati di verità, tralasciando il sapore del
vangelo!
Il desiderio di contarci può
indurci a pensare che esistiamo o abbiamo un peso nella società solo nella
misura in cui abbiamo consensi. E, così, pensiamo di contare solo se siamo
capaci di contarci.
In questo sistema non è difficile
tarpare le ali ai giovani a cui facciamo credere che valgono solo nella misura
in cui riscuotono consensi, raccolgono like nella vita, ricevono i primi posti.
Pieter Brueghel il Vecchio, Censimento (particolare) |
2. Il
nuovo popolo di Dio
Il contesto del censimento è il tempo
in cui si compirono per Maria i giorni del parto. E mentre l’imperatore si
preoccupava di contare la sua gente, ad un altro popolo viene rivolta
l’attenzione di Dio.
«C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto,
vegliavano tutta la notte
facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8).
Anche in questo caso gli
avvenimenti raccontati da Luca non sono accidentali ma rispondono all'esigenza
evangelica di rendere solida la nostra fede.
Mentre l’imperatore conta il suo
popolo, Gesù nasce tra quelli che non contano.
I pastori al tempo di Gesù,
vivendo con i loro greggi, non ricevevano maggior considerazione dei loro
animali. Anzi, emarginati come ladri e bugiardi, non erano ammessi a testimoniare
davanti ai tribunali. Ma è proprio ad essi che gli angeli rivolgono l’annuncio
della nascita di Gesù. Questa notizia è «per loro» (Lc 2,10); il «segno» che l’angelo
ne dà è «per loro» (Lc 2,12). Molto più, è «per loro» (2,11) che è nato il
«Salvatore, Cristo Signore». È a persone di questo genere, gli ultimi fra gli
ultimi, che gli angeli si rivolgono per annunciare la nascita del Salvatore!
L’ordine con il quale Luca annuncia il vangelo non può lasciarci indifferenti. Ai
pastori è annunciata una gioia che sarà di tutto il popolo (Lc 2,10).
In questi giorni non posso non
pensare ai pastori che, ancora oggi pascolano tra le nostre terre. Ancora oggi
emarginati, senza diritto di parola, sfruttati da un sistema che acconsente che
uomini vivano in fabbricati fatiscenti, freddi, abbandonati a se stessi.
Mentre il nostro secolarismo ci
spinge a pensare che contiamo se appariamo, se gridiamo, se facciamo chiasso,
forse, ancora oggi Gesù continua ad incarnarsi tra i campi abbandonati dai
riflettori della nostra società, nelle grotte di chi, per riscaldarsi usa mezzi
di fortuna. E mentre il mondo va da un’altra parte, il regno di Dio continua a
crescere con linguaggi nuovi.
Nel raccontare la nascita di
Gesù, l’evangelista Luca ci annuncia un Vangelo che è capace di cambiare la
vita. Ci dice che l’avvenimento di Cristo è la risposta al bisogno dell’uomo di
contare qualcosa, di dare un senso alla vita, alla storia, alle gioie e alle
sofferenze.
Ci sono due strade: quella del potere che pretende di farci uscire
dall'anonimato solo contando sulle nostre forze, sui consensi o il pensare
comune; quella del Vangelo che ci chiede di diventare come i pastori o almeno
non di lasciarci interpellare da loro. L’evangelista Luca non ha dubbi: il
vangelo è annunciato innanzitutto ai pastori. Loro sono nelle condizioni di
accoglierlo per primi, di riconoscerlo, di indicarci la strada verso la
mangiatoia. Una comunità ecclesiale o civile che non si lascia interpellare da
tutte le forme di povertà (educativa, economica, relazionale), che preferisce
distogliere lo sguardo dalle fatiche umane, che conta gli spiccioli e non valorizza
le risorse dell’uomo, prima o poi crolla su se stessa come il grande impero di
Cesare Augusto.
Dovremmo chiedere a chi è
emarginato, a chi è escluso o piccolo: dov'è il Signore? Parlaci di Lui!
portaci a Lui! Facci entrare con te nella mangiatoia per stupirci dell’opera di
Dio.
In questo tempo di profondi
cambiamenti e incertezze la tentazione di cercare un Cesare Augusto a cui
appartenere è molto forte. Quando si ha paura, si conta, si pesa, si misura.
Come un vecchio taccagno, contiamo le monete che accumuliamo, pensando che
questo gesto possa preservarle dalla loro naturale provvisorietà.
In questo tempo di
scristianizzazione il tentativo di misurarci con chi non la pensa come noi potrebbe
indurci ad una lotta impari e poco evangelica.
Una Chiesa che ha paura, si
conta: conta i giovani, i sacramenti, i posti a sedere, i consensi. Non si
interroga su quanto possa contare il Vangelo nella vita delle persone, di
quanto senso possa dare la Parola di Dio alle prospettive di crescita di una comunità,
né di quale speranza e valore possa nascere dall'annuncio di Cristo.
Una Chiesa che ha paura si
preoccupa di contare i consensi sulle proprie opinioni e non sullo stile
evangelico fatto di vicinanza, ascolto, pazienza, amorevolezza.
Una Chiesa che ha paura confida
più sulla propria capacità di urlare o farsi vedere che sulla potenza della
Parola di Dio che, come seme fecondo, entra nella terra, rompe le zolle, fa
germogliare la vita.
La mangiatoia
Il cammino dei pastori ha una
meta: la mangiatoia. «Questo per voi il segno:
troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc
2,12).
Questo segno parla il loro
linguaggio: «la mangiatoia» degli animali nella quale è deposto il neonato fa
parte del loro universo quotidiano. Essi con ogni probabilità non hanno avuto
altra culla che questa. Il Salvatore doveva raggiungerli fin nelle condizioni
della loro nascita. Come essi, egli si consacrerà a vegliare sul suo gregge,
per nutrirlo e proteggerlo da ogni pericolo, come vero pastore del suo popolo.
Gesù viene deposto nel luogo in
cui il gregge mangiava, quasi a ricordare che solo in Lui il gregge che Cesare
Augusto presumeva di contare può trovare in una nuova mangiatoia il Pane a cui
attingere la vita.
Nella mangiatoia oggi
contempliamo la vita che non conta: la vita di bambini a cui è negata
l’esistenza con l’aborto, la vita di anziani e ammalati diventati un peso per
la società, la vita dei giovani sempre meno ascoltata da società invecchiate in
sistemi economici e politici del passato, la vita dei poveri a cui è tolto il
diritto di parola, di cibo e acqua, l’esistenza di chi ha sbagliato e a cui è
negato il diritto di una possibilità.
Nella mangiatoia contempliamo
Gesù tra la paglia, tra gli odori degli animali e il calore della madre.
Gesù ha scelto di nascere lì dove
il gregge mangiava per dar da mangiare a chi non conta. Solo i pastori potevano
comprendere quel segno così loquace per chi accompagnava il gregge stanco e
infreddolito verso il luogo in cui poter trovare il cibo.
La mangiatoia ci dice che non c’è
un’altra strada, un'altra possibilità, un’altra via per dare senso all'uomo che,
come un pastore, veglia nella notte alla ricerca di una luce nella notte della
vita.
Non ci sono altri percorsi di salvezza se non scegliere di farci imitatori
di Cristo Gesù che “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un
privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di
servo, diventando simile agli uomini” (Fil
2,6).
Il
segno della mangiatoia è il segno della vicinanza di Dio nella vita dei
pastori, è il segno di una amore concreto, quotidiano, capace di sporcarsi non
solo le mani.
Di
questo amore fu un grande cantore S. Alfonso Maria De Liguori:
«A te, che sei del mondo il Creatore, mancano panni e foco, o mio Signore
Caro eletto pargoletto, quanto questa povertà più m'innamora,
giacché ti fece amor povero ancora […]
Dolce amore del mio core, dove amor ti trasportò? ».
La corsa dei pastori
Dopo aver contemplato il bambino,
i pastori fanno esattamente quello che avevano fatto gli angeli: «fanno
conoscere» (Lc 2,17) ciò che questi ultimi «avevano fatto conoscere» loro (Lc
2,15). Diventano come loro i messaggeri del Signore; sono essi ormai gli angeli
di Dio sulla terra.
Le parole venute dal più alto dei cieli tramite gli angeli
sono riprese dai pastori che le trasmettono a «tutti». Sono i soli «angeli» che
appaiono a Giuseppe e a Maria; ciò che la madre del bambino conserverà e
mediterà nel suo cuore, è il racconto di ciò che è loro successo. Infine,
quando se ne ritornano, fanno anch'essi ciò che aveva fatto «la moltitudine
dell’esercito celeste»: come gli angeli, essi «glorificano e lodano Dio» per
ciò di cui sono stati testimoni e probabilmente anche per essere stati scelti
tra tutti sulla terra come primi messaggeri della buona notizia.
La gioia dei pastori sta
nell'aver compreso che per Dio non sono un numero e che l’annuncio del vangelo
anche se non gli cambiato immediatamente la loro condizione sociale, ha aperto
una strada nuova alla loro vita.
Tra i pastori che tornano dalla
mangiatoia mi piacerebbe riconoscere le gambe veloci dei giovani, che portano
sulle loro spalle il peso di una crisi economica, sociale ed educativa che,
spesso, appesantisce il loro passo.
Sono una delle fasce più deboli
della nostra società: contano di meno delle elezioni politiche, hanno meno
denaro di chi è più avanti nell'età, devono fare i conti con i nuovi bisogni
che le società occidentali impongono.
La paura per il futuro potrebbe
indurre gli adulti ad avere meno fiducia nei loro confronti e portare i giovani
a credere sempre meno nelle loro capacità e possibilità. I giovani cristiani
dovrebbero sempre ricordare che ciò che conta per Cesare Augusto non conta per
il Vangelo!
In questo tempo, così mutevole, a
loro è dato di poter essere raggiunti da annunci nuovi, di poter sognare,
realizzare e intraprendere percorsi nuovi. Quando sembra che non possiamo
contare più su nulla o abbiamo l’impressione di non contare nulla, allora
sentiamo rivolto per noi l’annuncio degli angeli: «Non
temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è
nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11).
Sentiamo per noi le parole del
profeta Isaia:
«Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato.
Anche i giovani faticano e si stancano,
gli adulti inciampano e cadono;
ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza,
mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi,
camminano senza stancarsi» (Is 40,29-31).
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