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La controra

di Domenico Giannuzzi


Ci sono leggi scritte e leggi non scritte.
In un paese del Sud quelle non scritte valgono più di quelle scritte: più dei sensi unici, più delle code negli uffici, più delle tasse da pagare.
Le leggi non scritte si imparano subito: è sufficiente un rimprovero, una critica, una sculacciata sonora o una di quelle figuracce che racconti solo quando ti accorgi non essere stato né il primo, né l’ultimo a farle.
Questo dovrebbero saperlo tutti. Anche Marcello, il figlio della bidella Natalina. A 12 anni non si è troppo grandi da permettersi di trasgredire una legge non scritta, né troppo piccoli da poter essere facilmente perdonati.
Su ogni pietra del basolato incandescente delle strade del centro storico, così come sugli scuri in legno che proteggono i vetri infocati delle case imbiancate, è scolpita a chiare lettere una delle leggi non scritte più osservata: “alla controra non si gioca in piazza, né si urla per le strade!”.
Lo sanno tutti: la signorina Maria che dalle 14.00 ha già lavato i pochi piatti di ceramica e tolto le briciole di pane sfuggite al suo occhio impietoso; Pinuccio che è passato dalla tavola al letto senza troppa consapevolezza; Anna che, dopo una faticosa lotta corpo a corpo con i suoi figli, è riuscita a riportare il silenzio e la calma nelle camere da letto; Matteo che è rimasto a tavola ma pensa di stare a letto.
Alla controra la città si trasforma in un set da far west, le zone d’ombra diventano rare oasi in cui rifugiarsi  e anche le fredde pietre sembrano aver ceduto alle lusinghe dei raggi del sole sprigionando leggeri vapori acquei.
Alla controra si resta a casa. Specialmente se la controra è di domenica.
Eppure il 16 luglio non è stato così.
Nel religioso silenzio di una domenica incandescente una voce stridula dai toni infantili e dalla violenza adolescenziale ha rotto una delle regole non scritte più sacra.
“Correte, correte. È spuntato un grosso fiore sulla facciata della chiesa”.
Così la voce del figlio del falegname, come un fiume in piena, irrompeva tra le viuzze del piccolo centro del paese assopito dalla inebriante calura estiva.
“È spuntato un grosso fiore!” – ripeté la moglie del sacrestano il cui viso assumeva tonalità di rosso differenti provocate non tanto dagli aromi dell’incenso e della mirra quanto dai residui di alcool lasciati dal vino rosso primitivo che accompagnava ogni pietanza.
“Questo si che è vino” - diceva compiaciuto – “Un buon vino dovrebbe lasciare il segno non solo sul bicchiere, ma anche sul calice. Non capisco perché in chiesa usano quello bianco. In sangue è rosso, anche il vino dovrebbe essere rosso! Secondo me lo annacquano prima. Si fanno almeno due sorsi per poter sentirne il sapore”. Mario, il sacrestano, non brillava per prudenza, tanto meno per astuzia. Questa confidenza gli venne fuori quando don Michele gli fece notare che il vino della messa evaporava più dell’acqua nelle acquasantiere.
Un grosso fiore sulla facciata poteva essere un problema per lui. Le radici di un fiore possono essere pericolose. Entrano nella pietra, la scavano e, con le prime acque, la rompono.
“Maledetti uccelli” – esclamò all’improvviso, mentre si rotolava sul divano i cui cuscini avevano disegnato con perfezione la sua sagoma. “Si, si maledetti uccelli. Saranno stati loro a trasportare il seme di questo fiore sulla facciata della chiesa! Ora… dovrò prendere una scala… trovare un veleno…”.
In verità della facciata a lui non interessava molto. Ma già immaginava in suo ritorno in chiesa, quando sarebbe stato attorniato da un decina di donne che, come cornacchie, lo avrebbero accerchiato e rimproverato “che ci fa quel fiore sulla facciata? Che fa il sacrestano? Dorme?” .
“Hai sentito? Un grosso fiore sulla facciata delle chiesa!” ripeté la moglie, scuotendolo con insistenza.
Essere aggrediti nel cuore del pomeriggio domenicale non era permesso a nessuno, neanche alla propria moglie. Perciò, Mario pensò bene di cambiare posizione sul divano e continuare a santificare il giorno del Signore.
Non fu così per Marcello che, come in una propaganda elettorale, continuava a diffondere la notizia tra le vie del paese: “è spuntato un grande fiore sulla facciata della Chiesa”.
“Hai sentito?” – chiese donna Lucia, alzando la cornetta del telefono senza preoccuparsi molto delle presentazioni. “È spuntato un grosso fiore” rispose la signora Anna non sorpresa affatto della telefonata.
Le supposizioni sulla natura e fattezza del fiore corsero più veloci delle loro stanche gambe e le parole, ascoltate a metà a causa della sordità senile, si accavallarono dando spazio a una delle sceneggiature degne di uno dei racconti di Agata Christie. Così le due miss Marple, poco interessante agli eventi, cercarono immediatamente il colpevole. “Se c’è un fiore sul fronte della Chiesa sarà colpa di quel fannullone del sacrestano o del giovane parroco. Ormai non ci sono più quelli di una volta. Loro non avrebbero permesso ad un fiore di deturpare la facciata di una chiesa. Non si sono più i giovani di una volta, anzi, forse, sono stati loro ad imbrattare i muri del tempio. Non si era mai visto, fino ad allora, un fiore così grande. A pensarci bene, probabilmente, i colpevoli potrebbero essere i dei due mendicanti neri”. Il caso sembrava giungere quasi alla sua conclusione. Un dossier televisivo aveva offerto loro anche argomenti abbastanza decisivi: in Africa hanno trovato fiori più grandi del mondo. Ricordano anche il nome: Aro Titano. Un fiore tropicale che resta in vita circa quattro giorni. Questa pianta tropicale cresce in Indonesia che, anche se non si trova in Africa, sarà giunta in Italia con gli africani. Già, perché non si sono più neanche gli africani di una volta.
Il caso sembra essere risolto ma, l’opera più difficile, sarà dover tenere per sé la soluzione. Già, perché loro conoscono bene la legge non scritta:  alla controra non si telefona, non si grida, non si disturba.
Ma, allora, che ci fa Marcello per strada? E, soprattutto, sentenziò Anna: “non si sono più le mamme di una volta”.
Senza saperlo, questo ritornello, passò di casa in casa, di camera in camera, di letto in letto. Un ritorno che, come un fiume in piena, invase dapprima la casa del povero sacrestano, del sindaco, dell’appuntano, dello storico del paese e di don Ignazio, il vecchio parroco.
Così, a malincuore, si ritrovarono tutti difronte alla chiesa. Tutti col naso all’insù, con la bocca semiaperta e gli occhi protetti da una mano e dalle sopracciglia incurvate. Per dieci minuti ci fu un grande silenzio.
“Ma dov’è il fiore?” si sentì gridare da lontano. Era don Michele il giovane parroco, un uomo di circa trent’anni non preoccupato molto di nascondere il suo impegno pomeridiano dopo il pranzo domenicale. I capelli scompigliati, la maglietta stropicciata e l’andamento della bicicletta raccontavano con chiarezza le ultime ore del giovane curato il quale non disdegnava il riposo domenicale, celato da un leggero senso di colpa, ma svelato dalla sua ingenuità: “scusate, ho lasciato gli occhiali a casa”.
Senza saperlo don Michele aveva scoperchiato il vaso di Pandora da cui, senza alcun pudore per i due chierici, uscirono imprecazioni, lamentele e improperi mitigati da “scusate”, “mi sia permesso”, ecc.
Il colore ocra della facciata diventa particolarmente luminoso quando i raggi del sole pomeridiano la invade completamente mettendo a nudo ogni particolare, ogni venatura e ogni segno lasciato dal tempo.
Il riflesso del sole illumina così tanto la facciata da non lasciare spazio alla minima ombra.
Tutto questo, però, seppur poteva riscaldare il cuore di un visitatore, non faceva altro che mettere ancora più in luce una evidenza: del grande fiore non c’era neppure un ombra!
Nulla avrebbe potuto consolare i malcapitati che avevo lasciato il loro ristoro per prendere atto di una enorme bugia.
“No, non è possibile” – ripeteva il giovane parroco – “se Marcello ha interrotto la legge non scritta certamente è perché ha visto qualcosa”. Pensava così, di consolare i presenti. Ma tutti ciò non fu sufficiente, quanto il vedere da lontano l’ombra minacciosa della madre di Marcello che lo trasportava, come un trofeo, prendendolo per un orecchio. L’idea che la giovane bidella stesse mettendo in atto la giusta punizione per il primo dei suoi figli sarebbe stato più consolante di qualsiasi rassicurazione di don Michele.
“Allora? Dov’è questo fiore?” – era la domanda che intervallava il passo robusto e deciso della madre esausta.
“Già. Dov’è questo fiore?” ripeté stizzito il professor Cirielli, lo storico del paese.
“È sulla facciata, sulla facciata” rispondeva con voce decisa Marcello che, come un’anguilla tra le mani inesperte di un compratore, riuscì a sfuggire, lasciando tutti senza risposta.
“Sarà una fantasia adolescenziale” disse don Michele, rispolverando nella sua mente, vecchi appunti di psicologia dell’età evolutiva. “Quando si passa dall’infanzia alla giovinezza, non si distingue bene la realtà dalla fantasia”. Rincuorato dalla soluzione del problema, riprese la sua bici e con un “sia lodato Gesù Cristo”, assolse tutti da pensieri funesti invitandoli a ritornare alle comode abitudini.
Anche il Sindaco che, nel frattempo, aveva acquietato una sommossa popolare provata dalle teorie sull’Aro Titano, pensò di tornare a casa più sereno e pronto a dimostrare a tutti che l’Indonesia non è uno stato Africano e che siamo più vicini noi all’Africa che l’indonesiani, anche se – a pensarci bene – questa notizia non sarebbe stata, per alcuni, così tanto consolante. Ma di tutta questa storia portava con se un dubbio: forse dovremmo iniziare a scrivere le leggi non scritte? E chi dovrebbe controllare chi non le rispetta? Chi dovrebbe multarle? Abbassando lo sguardo sul suo orologio si accorse che mancava un ora alla conclusione della controra che, nel giorno di domenica, dura un ora in più e, non volendo perdere questo privilegio, strinse la mano a tutti e andò via, seguito dall’appuntato dei carabinieri.
Il professor Cirielli, rimase attonito. Era il più deluso di tutti. Aveva portato con se un vecchio binocolo, una macchina fotografica e un taccuino per gli appunti, assieme a due tomi dell’enciclopedia “quindici”: il volume numero 4 (le piante) e il volume numero 12 (luoghi da conoscere). “Cosa ti puoi aspettare da un ragazzino che marina la scuola!” si disse per consolarsi e ritornò pian piano a casa sua.
Mario, ancora inibito dalla presenza di don Ignazio, preferì deglutire gli ultimi segni di rancore e, accennando ad un inchino salutò don Ignazio.
Così un po’ alla volta, senza dire troppe parole, ognuno tornò alla sua dimora, tranne don Ignazio che appoggiandosi sul suo bastone incurvato restò difronte al tempio.
Si guardò attorno. La piazza era silenziosa, le ante dei palazzi ottocenteschi, dopo esser state leggermente smosse dall’eco dell’accaduto, erano ritornate al loro posto. Anche il leggero vento che accarezzava la piazza sembrava essersi acquietato e solo pochi passeri beccavano i resti di una colazione lasciata tra i tavoli di un vecchio bar.
Si fece un po’ più indietro appoggiandosi al muro di un vecchio palazzo “da lontano si vedono meglio le cose” – disse tra sé – attendendo una ispirazione o una intuizione. “Non ha senso questo bugia”, si diceva, e con lo sguardo iniziò a percorrere i contorni delle antiche mura. Salì pian piano, scalando pietra dopo pietra. Lo stile romanico non lasciava molto spazio alla fantasia e alla interpretazione. Le colonne e le cornici dividono la facciata in sei aree su cui sono disegnate e scolpite, nella parte inferiore, tre porte e in quella superiore un grande rosone. Il portone centrale si presenta in tutta la sua imponenza. Circoscritto da due colonne di pietra sovrastanti due grandi leoni, invita ad entrare nel tempio sotto lo sguardo benedicente del Creatore. Il timore di dover attraversare i due felini viene mitigato dalla storia della conversone del santo a cui Dio non imputa il giudizio per i suoi errori passati.
Ognuna delle due porte laterali, più semplici, è sormontata da una grossa conchiglia che sottolinea maggiormente l’assenza di due possibili statue. Un vuoto che, comunque, rende le due porte più leggere.
La cuspide è sovrastata da tre immagini corrose dal tempo: al centro la Madre di Dio, ai due lati i Santi Pietro e Paolo. Non mancano fregi, cornici, lesene e una lapide che sigilla il tempo della sua costruzione.
Tutto è ben ordinato, ma del fiore – ahimè – nemmeno un ombra.
“Don Ignazio che fai?” – una voce amica irrompe nei pensieri assopiti di don Ignazio. Era Camilla. L’unica del paese che dava del tu a don Ignazio senza che fosse percepito come una maleducazione o una estrema confidenza. Non tanto per una concessione del popolo o dello stesso curato (che, in fondo, apprezzava molto la sua sfacciataggine), quanto per un approccio confidenziale che Camilla aveva con il mondo.
Ormai nessuno faceva più caso al suo andamento un po’ goffo, ai suoi vestiti aderenti e alle sue paillettes.
Camilla preferiva andare in giro quando tutti erano in casa e la controra era uno dei suoi periodi preferiti. A volte anche a lei piaceva appoggiarsi al muro ed ammirare la bella facciata. E così fece anche questa volta, mettendosi accanto a don Ignazio.  Lei non chiedeva il permesso a nessuno perché ogni piazza e ogni strada un po’ le appartenevano.
“Che fai?” gli chiese per la seconda volta, e cominciò a parlare ininterrottamente senza preoccuparsi delle possibili risposte del curato. Ma tutto questo a don Ignazio piaceva. Lui ascoltava con interesse le frasi, a volte, smorzate dalla sfiducia di non esser capita, altre volte dal desiderio di ricominciare a raccontare. Don Ignazio riusciva a vedere ciò che Camilla stessa non conosceva di se stessa e le dava sempre la risposta giusta. Se le avessero chiesto un aggettivo per descrivere Camilla, lui avrebbe risposto “bella”.
Il vecchio parroco la ricorda da bambina quando la mamma dovette lasciarla ai nonni per seguire l’ennesimo sogno della sua vita. I suoi occhi chiari e i capelli neri gli ricordavano il viso scarno della mamma. Del papà nessuno sa nulla, forse neanche la mamma, ma a Camilla non interessava. Lei aveva una famiglia: i nonni e don Ignazio. Li disegnò insieme quando, in terza elementare, le chiesero di disegnare la sua famiglia.
Ma l’adolescenza e la giovinezza li allontanò. Camilla quasi ripetendo una musica che le era entrata nel cuore, replicò la storia di sua madre e, tra sogni e delusioni, consumò buona parte della sua giovinezza. Ora ha quarant’anni anche se ne dimostra un po’ di più, forse anche per il trucco eccessivo. Ma per don Ignazio è ancora più bella. Lo è da quando, con le sole sue forze, è riuscita a rompere il muro del silenzio, ha ripreso la voglia di vivere e ha capito che poteva cambiare e dare un senso nuovo alla sua esistenza. Ecco perché a Camilla è permesso dare del “tu” a don Ignazio.
“Bhe, allora? Perché sei qui?. Sei venuto a vedere il grande fiore? A quest’ora è più bello, vero?” chiese Camilla senza sapere che avrebbe incrociato lo sguardo curioso e luminoso di don Ignazio. “Ho detto qualcosa di male?” disse subito. “No, no” - la rassicurò – “sai, io sono diventato ormai vecchio, non riesco a vedere così lontano”.
“Ma come? È lì” rispose Camilla indicando la facciata della Chiesa. E girandosi all’improvviso, scorse, tra alcune macchine il volto di Marcello. “Vieni, vieni. Aiutiamo don Ignazio. Non riesce a vedere il grande fiore” e, quasi prendendolo per mano con gli occhi, avvicinò Marcello al piccolo gruppo. “Davvero non lo vedi?” disse Marcello, un po’ deluso. E insieme indicarono il grande rosone che riempiva la facciata superiore.
“Ahh il rosone” disse, ridendo, il curato. “Si chiama rosone. Ma forse avete ragione voi è davvero una grande rosa. Oggi è più bello degli altri giorni. Sarà perché c’è silenzio, o perché lo guardo con i vostri occhi. Cos’è la bellezza, in fondo, se non guardare le cose con gli occhi dei piccoli, lasciarsi stupire e meravigliare. Fermarsi dinanzi ad un pezzo di pietra scolpita e sentirne anche l’odore”.
“Lo senti anche tu l’odore?” – interruppe Camilla – “Ci vogliono anni per sentirne il profumo, per vederlo sbocciare ogni giorno, per restare stupiti dinanzi ai raggi di sole che lo attraversano. Sai, io ho parlato con i corvi. Loro adorano il profumo di questo fiore, ci hanno costruito vicino persino una casa”.
“A me piace anche di notte” – aggiunse Marcello – “quando la luce della chiesa illumina i petali. Non sai più se Dio si trova dentro o fuori. È un fiore speciale che riflette il disegno del sole, ma non tramonta quando viene la notte”.
Il vecchio don Ignazio guardava i suoi piccoli interlocutori con gli occhi lucidi e meravigliati. Erano passati tanti anni, troppi anni e lui non aveva mai sentito l’odore di questo grande fiore.
Così, senza pensarci molto, salutò i suoi amici e incominciò a gridare per le strade della Città: “Correte, correte. È spuntato un grosso fiore sulla facciata della chiesa”. Ma, intanto, il sindaco aveva emesso una ordinanza in cui era scritto che coloro che infrangevano la legge non scritta del riposo pomeridiano era inflitta la pena del carcere. Don Ignazio era troppo anziano per andare in carcere, perciò, fu rinchiuso in una casa per anziani mentre ripeteva tra se: “chi può riconoscere la bellezza? Solo un piccolo, un povero, un pazzo”.


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