“QUANDO PREGATE…” (MT 6,5)
Traccia
Per Il Cammino Quaresimale
Ancora
un volta ascolteremo, come un ritornello, le parole che accompagnano la pioggia
di cenere sul nostro capo: “convertiti e credi al vangelo”; un
susseguirsi di parole in cui è racchiuso, non solo il primo invito di Gesù ai
discepoli, ma anche il senso del tempo liturgico che ci apprestiamo a vivere.
La
conversione, di cui il digiuno e l’elemosina sono un segno, è accompagnata
dall’invito a credere, a fidarci di Gesù che incontriamo, in un modo
particolare, nella preghiera. Su questo atteggiamento vorrei, con voi,
riascoltare le parole del capitolo 6 del vangelo di Matteo, facendo risuonare
in noi la richiesta dei discepoli: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). Innanzitutto,
il vangelo ci indica gli atteggiamenti da “convertire” e la strada in cui
incontrare il Signore.
1.
LE
TENTAZIONI NELLA PREGHIERA
Con
l’affermazione “non siate simili” il Maestro ci invita a prendere le distanze
da due atteggiamenti: l’ipocrisia e il paganesimo.
-
L’ipocrisia
“E quando
pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli
delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente” (Mt. 6,5).
Potremmo
ritenere che questa prima tentazione non ci riguarda, perché, piuttosto, ci
vergogniamo di pregare, di fare il segno di croce o di inginocchiarci!
Ma,
a pensarci bene, questa potrebbe essere la tentazione del credente “impegnato” quando la misura della preghiera non è, solamente,
la lode gratuita a Dio ma la sua esecuzione.
È,
questo, il rischio non solo del lettore, del cantore, del ministrante, ma è
anche di chi, misurando, ascolta e guarda; di chi, angustiato dal ricordare o
dire tutti i peccati, dimentica di ringraziare Dio per il perdono ricevuto; o di
chi, con distrazione, riceve la comunione senza poi fermarsi nella preghiera. Mi
chiedo spesso come sia possibile ricevere il dono dell’Eucaristia e,
contemporaneamente, scrutare chi è in processione, dare condoglianze o auguri,
scegliere canti o tornare a posto come se nulla stesse succedendo in noi.
È
il rischio di chi è chiamato servire la liturgia e invece si serve di essa per
mostrare se stesso, per esercitare un potere, per rivendicare un diritto
acquisito nel tempo, per misurare il proprio peso o valore nella Comunità.
È
anche la mia tentazione: spesso, quando incenso l’altare mi colpisce il
movimento del turibolo che dopo aver incensato, ritorna verso il celebrante.
Non vi nascondo che, nell’incensare, chiedo al Signore di liberarmi dalla
tentazione di far tornare su me stesso la preghiera fatta a Dio, di ridurre la
liturgia ad una cerimonia o, peggio, ad uno spettacolo in cui il presbitero, i
lettori, i ministranti piuttosto che lasciar intravedere il mistero di Dio, lo
nascondono – come balaustre vive – agli occhi del suo popolo. Così movimenti
inutili, inchini ridondanti, voglia di apparire, toni alti e commenti inutili riempiono
inopportunamente il silenzio di Dio.
È
la tentazione del credente se dalla sua bocca escono contemporaneamente la lode
a Dio e il disprezzo dei fratelli: “Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo
fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non
può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).
-
Il
paganesimo
“Pregando,
non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di
parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose
avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (Mt 6,7-8).
Possiamo
essere pagani nella preghiera, riducendola ad un impegno, una fatica che ha le
sue radici nella volontà dell’uomo: “a forza di parole”. Quando si impara a
pregare, un po’ alla volta, si tralasciano le parole per dare a Dio lo spazio
in cui Egli parla. I pagani non sono tanto coloro che non credono
nell’esistenza di Dio, quanto coloro che non si fidano abbastanza di Lui. Mi ha
colpito una frase di Santa Micaela, fondatrice delle Suore adoratrici del SS.
Sacramento e della carità, che, affinché le sue sorelle non ci scoraggiassero
dinanzi alle difficoltà, aveva affidato loro un messaggio del Signore: "La
mia Provvidenza e la tua fede manterranno la casa in piedi". Nella
preghiera noi facciamo questa esperienza: la casa della nostra vita si mantiene
in piedi per la Provvidenza di Dio e la nostra fede. I pagani non si fidano
molto di Dio, non hanno tempo per Lui, pensano di risolvere tutto con le
proprie forze.
È
questa la tentazione dei “cristiani non praticanti”: non fidarsi troppo
di Dio, anteporre le proprie delusioni, fatiche o sconfitte alla sua grandezza e
potenza. È la tentazione di chi – come me – è preoccupato di organizzare tutto,
di controllare ogni cosa, di portare avanti il proprio progetto di vita senza
fidarsi completamente di Dio. Nella preghiera silenziosa e costante, all’inizio
della giornata, invochiamo il Signore: “ecco questa giornata, te l’affido, la
metto nelle tue mani, aiutami a seguirti ovunque tu vorrai”.
Nel
vangelo di Matteo, il Signore ci dice anche come pregare, perché e cosa pregare:
“Quando tu
preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel
segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,6).
Gesù ci dice
che la preghiera è innanzitutto una relazione che non può prescindere da noi stessi:
nella preghiera facciamo una esperienza di verità e libertà. Ma – lo sappiamo
bene – entrare nella camera del nostro cuore non è scontato, né facile. La
preghiera cristiana, però, non è una meditazione orientale, un soliloquio.
Entriamo nella camera del nostro cuore perché abbiamo una certezza: lì abita
Dio. Scriveva S. Teresa D’Avila: “Dobbiamo
ritirarci in noi stessi, anche in mezzo al nostro lavoro, e ricordarci di tanto
in tanto, sia pure di sfuggita, dell'Ospite che abbiamo in noi, persuadendoci che
per parlare con Lui non occorre alzare la voce” (Cammino di perfezione
29,5).
Se scegliamo
di entrare con il Signore nel segreto del nostro cuore, necessariamente decidiamo
di non accontentarci di restare in superficie. Qui comprendiamo la relazione tra
il digiuno e la preghiera.
Spesso
diciamo di non avere tempo per pregare, forse dovremmo dire che non riusciamo a
donare il tempo alla preghiera, a rinunciare ad alcune cose a cui abbiamo
attaccato il cuore, per aderire ad essa. Il tempo della Quaresima può essere
per noi un’occasione per dare una regola di vita alla
nostra preghiera. Ma, perché non sia “pagana”, ricordiamoci di iniziare sempre
invocando il dono dello Spirito Santo, poi leggiamo un salmo, scegliamo un
parola, una frase per la nostra giornata, preghiamo lentamente il “Padre nostro”
e, infine, raccogliamoci nel colloquio con il Signore.
Questa
preghiera - fatta di meditazione o contemplazione - ci chiede l’esercizio e la
costanza. Come ci ricorda S. Ignazio, dal corpo impariamo come allenare il
nostro spirito: “il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi
corporali”: aiutano il nostro corpo a crescere e mantenersi in vita. Così, “tutti
i modi di preparare e disporre l’anima a liberarsi da tutti gli affetti
disordinati e, una volta che se ne è liberata, a cercare e trovare la volontà di
Dio” – ossia gli esercizi spirituali – allenano il nostro spirito all’incontro
con Dio. La Quaresima è il tempo degli esercizi spirituali di tutta la Chiesa. Non
dimentichiamo, perciò, il monito del Siracide: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla
tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della
prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi
ultimi giorni. […] Affìdati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e
spera in lui” (Sir 2,1-3.6).
Qual
è la “ricompensa” della preghiera? La risposta a questa domanda ci introduce
nel legame tra la preghiera e la carità, intreccio
profondo e misterioso tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
L’esercizio della
preghiera alimenta in noi l’amore di Dio.
A
tal proposito vorrei offrirvi un esempio tratto da un testo di spiritualità: “immaginate di avere un grande amico che
vive in una città lontana. Un giorno egli viene a trovarvi senza preavviso, vi
fa una visita a sorpresa. Non sarebbe strano, da parte vostra, dirgli, nel
momento in cui entra in casa vostra e vi chiama per nome: “Per favore, non
rivolgermi la parola, perché ho da fare, devo pensare a te?”. Penso che il
vostro amico vi risponderebbe: “Pensa a me quando sono lontano! Quando sono con
te, stai qui con me, parlami”. È questa la differenza fra la meditazione, o la
contemplazione (in cui penso al Signore e al posto che occupa nella mia vita),
e la preghiera vera e propria, che significa essere con il Signore” (T. H.
Green, Quando il pozzo si prosciuga, 54). Un po’ alla volta la preghiera ci
prepara alla visita inaspettata del Signore, per questo essa è innanzitutto
grazia, dono, gratuità.
L’esercizio della
preghiera alimenta in noi l’amore verso gli altri.
S.
Teresa D’Avila paragona la preghiera all’acqua con cui innaffiare il giardino
del cuore dell’uomo. In questo giardino Dio, nella sua bontà, pianta i semi e
sradica le erbe cattive. Perciò è Lui che mette nel cuore dell’uomo il
desiderio di pregare, la sete di senso, di vita e bellezza. È Lui che libera
l’uomo dalla schiavitù del peccato, dalle conseguenza del male, dai sensi di
colpa che, come macigni, ci legano alla storia. “A noi – scrive S. Teresa – come
a buoni giardinieri, incombe l’obbligo di procurare, con l’aiuto di Dio, che
quelle piante crescano: perciò innaffiarle affinché non inaridiscano, e cercare
che producano fiori di deliziosa fragranza per ricreare il Signore. Allora Egli
verrà spesso a riconfortarsi e trovare le sue delizie fra quei fiori di virtù”
(Vita di S. Tersa di Gesù, 11,6).
La
preghiera, perciò, non è fine a se stessa: l’acqua è per i fiori; essa alimenta
in noi i semi dell’amore che Dio pianta nel nostro cuore. La qualità della vita
spirituale di un cristiano è misurata dall’amore verso gli altri. Quanto più si
dilata il cuore nella preghiera, tanto più vi è spazio per tutti.
I
frutti della preghiera, perciò, sono quelli dello Spirito: “amore, gioia, pace,
magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).
Possa
il Signore, al termine del cammino quaresimale, farci gioire nel vedere
germogliare, crescere e moltiplicarsi questi frutti nel nostro cuore e nella
nostra comunità.
-
Cosa
pregare
L’evangelista
Matteo ordina le tre pratiche fondamentali della fede ebraica (elemosina,
preghiera e digiuno), ponendo al centro la preghiera e, al suo centro, il “Padre
nostro": “Voi dunque pregate così” (6,9). Questa – lo sappiamo bene – non
è una delle orazioni da “recitare”, ma lo spartito su cui decliniamo ogni
nostra preghiera.
Nella
chiesa di S. Agostino, sull'altare, vi è una bellissima tela che rappresenta S.
Agostino e S. Tommaso da Villanova, l’uno immerso nella preghiera e l’altro
nella carità. Il quadro è composto da due tele, che, col tempo si sono
reciprocamente allontanate. Mi ha sempre colpito questa immagine. Lo strappo
tra la preghiera e l’amore è la tentazione che, a volte, lacera il nostro cuore
e la nostra vita.
Il
Signore, nella sua misericordia, possa ricucire gli strappi della nostra
esistenza e questa Quaresima sia per noi un esercizio del cuore nell'amare Dio
e i fratelli con lo stesso amore con cui siamo amati da Dio.
Mercoledì delle ceneri 2018
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