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Inizio anno 2010

Esercitarsi nella gioia
La notte di Natale, a conclusione dell’omelia, guardando al cammino della nostra parrocchia mi auguravo che la nostra comunità potesse essere una casa e una palestra dove ci si esercita nella gioia.
Ma un pensiero particolare ho voluto rivolgerlo, usando le parole dell’Apostolo Paolo, a coloro che desiderano o che già cooperano nella vita della parrocchia: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 1, 9).

Carissimi fratelli e sorelle,
all’inizio del nuovo anno sociale, desidero rivolgere un pensiero guardando al cammino della Parrocchia, in particolare rivolgendomi a coloro che collaborano nelle attività pastorali della nostra comunità: agli animatori della carità, agli educatori, agli animatori della liturgia (lettori, coristi, ministranti, sacristi), ai responsabili dei diversi gruppi parrocchiali.
Mi rivolgo a voi non solo con lo stesso stile epistolare che caratterizzato l’ultima riflessione natalizia, ma lasciandoci guidare dallo stesso tema che ci accompagna in questo tempo di Natale: la gioia.

Carissimi fratelli e sorelle,
sapete bene che lo sguardo con cui guardiamo la vita della comunità non si può restringere al piccolo gregge dei collaboratori del parroco, degli animatori o dei responsabili. 
Nel capitolo 18 degli Atti degli apostoli S. Paolo, mentre predica il vangelo a Corinto, fa’ l’esperienza del calore domestico della casa di Aquila e Priscilla, dell’amicizia di Sila e Timoteo, della conversione di Crispo e della sua famiglia, e contemporaneamente, l’esperienza del rifiuto e dell’opposizione.
Mentre si intrecciano nella vita dell’Apostolo il calore domestico e la freddezza dei giudei, gli viene rivolta dal Signore una parola: “Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città" (18,9-10).

“Ho un popolo numeroso in questa città”: è questo l’orizzonte pastorale su cui ci intrecciano il cammino dell’apostolo e dei suoi collaboratori.
La parrocchia è, nella mente e nel cuore del parroco, “un popolo numeroso nella città!”. Non potrà mai essere una aggregazione, né un insieme di gruppi, né una comitiva, tanto meno il gruppo dei suoi amici o confidenti.
La parrocchia è la comunità dei bambini, dei giovanissimi, dei giovani, degli adulti, degli anziani che risiedono nel nostro territorio o si intrecciano con la nostra comunità. Non sono solo i collaboratori, gli educatori, gli animatori… starei per dire non sono neanche solo coloro che vengono a messa la domenica, ma tutti coloro, che per un motivo o un altro, ci incrociano nel nostro cammino. 
Questo orizzonte non possiamo, né dobbiamo mai accorciarlo, né avvicinarlo.
Questa premessa è necessaria perché su questo tavolo si intrecciano le nostre vite e la nostra collaborazione. In questa premessa troviamo lo stile, l’origine, il motivo della nostra gioia!

Fatta questa premessa, vorrei consegnare anche a voi, miei cari amici, 5 riflessioni sulla gioia. 

1. esercitarsi nella gioia vuol dire rispondere alla propria vocazione
Non possiamo dimenticare che tutti coloro che, con diversi carismi e ministeri, arricchiscono la comunità hanno una vocazione in comune: la vocazione laicale. 
Siete chiamati, cari fratelli e sorelle, non ad una vocazione di “serie B” nella Chiesa e nel mondo, ma ad una vocazione essenziale nella vita della Chiesa. Lo stesso Concilio invita i pastori a riconoscerne la dignità e a promuoverne la responsabilità (LG 37).
La vocazione dei laici ha un “proprium”, un elemento specifico che il Vaticano II riconosce nel “carattere secolare” (LG 31): “è proprio dei laici – scrivono i Padri Conciliari - cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”.
Continuano esplicitando: “Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità”.(LG 31).
Di qui comprendiamo che il mondo (ossia, il lavoro, la famiglia, lo sport, il gioco, la cultura, la vita sociale e politica) per i collaboratori parrocchiali non è una fuga, un luogo complicato da cui evadere, uno spazio di peccato o lontano dagli affanni parrocchiali.
Il mondo è l’elemento specifico dei percorsi di fede di ogni fedele laico.
Il laico viene in parrocchia portando con sé i profumi della casa, del lavoro, della vita sociale.
In questi luoghi egli sperimenta non solo la fatica ma anche la gioia della vocazione cristiana.
Le preoccupazioni, gli argomenti, le attese e le gioie dei fedeli cristiani che animano la vita parrocchiali sono le stesse che respiriamo nel mondo!
Chi è per professione e competenze “educatore”, non può smetterlo di esserlo in parrocchia;
chi è padre o madre non può dimenticarlo quando collabora nella vita comunitaria;
chi partecipa alla vita sociale, porta nella comunità le fatiche, le preoccupazioni, i successi della vita comune.
Non possiamo essere felici se viviamo la nostra vocazione come una evasione. 

2. esercitarci nella gioia vuol dire aprire il cuore al mondo
Nella parrocchia noi facciamo esercizio della gioia quando viviamo quella esperienza che è propria di tutta la chiesa: fare propria la gioia di tutta l’umanità.
“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (GS 1).
Le gioie della chiesa sono le stesse degli uomini di oggi! Non sono altre!
Ci interroghiamo su quali sono le gioie della nostra comunità o, meglio, per quali gioie di adoperiamo. 
Il fine della nostra parrocchia non è rendere “gioioso” il nostro oratorio, rendere “soddisfacenti” i nostri servizi ma sapere che nelle scuole ci sono percorsi educativi che mirano al benessere completo dell’uomo, che i servizi sociali si adoperano per promuovere il bene di chi è in difficoltà, che negli ambienti di lavoro si rispettano le proprietà altrui, che le famiglie vivano relazioni che mirano alla pace e al rispetto reciproco.
Non possiamo essere felici se chiudiamo il cuore al mondo.

3. esercitarsi nella gioia vuol dire imparare a lavorare insieme
lo sappiamo bene, il pensare comune ci porta a credere che “chi fa per se fa per tre”!
questa è una regola vera se il criterio che muove le nostre azioni è l’efficienza.
Ma non è questa la logica del regno di Dio. Sappiamo che siamo stati chiamati insieme. Nella parrocchia ci esercitiamo nella vita comune. 
Non lo abbiamo scelto noi, ma Gesù ha scelto di chiamarci in una comunità.
La comunità parrocchiale, lo sappiamo bene, non è una comunità di religiosi, né un gruppo d’elitè nella chiesa. 
La parrocchia è caratterizzata da un elemento di cui non può fare a meno: il rapporto col territorio. 
Nella parrocchia ci sono bambini, anziani, disabili, giovani, coppie, ammalati. Ci sono tutti!
Questa varietà arricchisce la vita della comunità perché ci ricorda la bellezza del corpo di Cristo: un unico corpo composto da tante membra. 
Perché il corpo di Cristo cresca in modo organico e pieno è necessario che ognuno risponda alla propria vocazione e si relazioni con le altre. 
L’unità è il fine del corpo di Cristo, è il fine della Chiesa. 
L’impegno a costruire l’unità non può essere il carisma di alcuni, la preoccupazione di altri, l’impegno per un tempo particolare. 
La chiamata all’unità è la nostra vocazione!
Non possiamo essere realmente felici se siamo divisi. Quando parliamo, operiamo, agiamo o favoriamo la divisione, laceriamo il corpo di Cristo, creiamo in esso una ferita che si ripercuote su tutte le membra. Ce lo ricorda San Paolo: “quando un membro soffre, soffre tutto il corpo”.

4. esercitarci nella gioia vuol dire gioire per la conversione degli altri
la parabola del figliol prodigo non vuole solo presentarci la figura del convertito ma è una risposta che il Signore da a coloro che mormoravano perché Gesù “riceveva i peccatori e mangiava con loro”.  Costoro sono i “figli maggiori” che da sempre hanno servito il padre e non riescono a gioire per il ritorno del figlio. 
Miei cari amici, 
dobbiamo riconoscere che il nostro stare in parrocchia a volte ci porta a presumere di avere dei diritti sugli altri o a chiudere il cuore, o a non rivolgere lo sguardo verso coloro che si avvicinano nella nostra comunità!
“da dove viene? Cosa vuole? È ultimo e lo trattano come primo!” sono le paure e le domande che turbano i “figli maggiori” e che non permettono loro di gioire della gioia del Padre.
Nella comunità parrocchiale il Signore ci fa un grande dono: quello di poter gioire e amare con lo stesso cuore del Padre. 
Ogni conversione, con tutte le sue difficoltà e contraddizioni, è per noi un motivo di gioia!
Gesù preso un bambino e lo pose nel mezzo! Al centro della comunità c’è sempre una persona nuova, un’ultimo arrivato, uno che ne sa meno di noi che necessita di essere collocato al centro dei nostri affetti e delle nostre attenzioni. 
Non possiamo essere realmente felici se non siamo disposti a gioire per chi si converte. Ma ricordiamo, a volte, chi si converte non è solo colui o colei che giunge ultim'ora in chiesa ma anche noi, che nei nostri percorsi di fede a volte sperimentiamo la fatica e la contraddizione del peccato. Perciò gioiamo uno della conversione dell’altro.

5. esercitarci nella gioia vuol dire saper aspettare
Il vangelo di Luca ci dice che l’opera del regno è simile a quella del seminatore che esce per la semina.
Le logiche del consumo a volte entrano anche nelle nostre comunità e pensiamo che i “successi” del regno seguano le logiche del mondo, ma non è così. 
La nostra gioia è quella del seminatore, il quale sa che la gioia del raccolto è preceduta dalla fatica dell’aratura, della semina, della cura del terreno. 
Non possiamo essere realmente felici se non siamo disposti ad aspettare che il Signore porti a compimento l’opera che inizia in noi.


Miei cari amici,
quando siamo scoraggiati, delusi, affaticati a volte ci viene la tentazione di tirarci indietro, di fuggire dall'impegno, di pensare che non ne valga la pena. 
C’è una parabola che nei tempi del seminario non riuscivo ad accettare e a comprendere: quella degli operai dell’ultima ora!
Ma perché il Signore alla fine dei tempi darà lo stesso premio a tutti? E noi? che ci guadagneremo!
L’entusiasmo adolescenziale non mi faceva vedere la fatica della risposta e le contraddizioni che accompagnano tutta la nostra vita!
Col tempo, quasi come un dono, ho compreso che il Signore fa comunque un dono agli operai della prima ora, un dono prezioso che purtroppo gli operai dell’ultima ora non potranno sperimentare: la gioia di lavorare per la sua vigna.

Cari fratelli e sorelle, 
è questa la gioia che siamo chiamati a sperimentare e condividere: la gioia di lavorare nel campo del Signore!
Possa il nuovo anno vedere più rigoglioso il campo in cui operiamo, possano in esso lavorare operai lieti e gioiosi capaci di amarsi e perdonarsi. 

È l’augurio che ci facciamo in questo anno!


Carissimi fratelli e sorelle, 
ringrazio il Signore per ognuno di voi, per la vostra generosità e semplicità, per l’entusiasmo e l’operosità, per la bontà e la fatica con cui operate in questa comunità.
Voi siete la mia gioia. 
Perdonate i miei silenzi, le mie timidezze, le mie distrazioni e le mie assenze.

Il Signore vi benedica.

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